Along this node

ALONG THIS NODE

Il nodo etimologicamente inteso può essere un “intreccio ottenibile in forme diverse e con funzioni specifiche, da uno o più elementi allungati e flessibili (corda, filo, nastro, ecc.) – in alpinismo, può essere inteso come “il modo più semplice di legarsi in cordata, consistente in una legatura intorno alla vita o fissata all’imbracatura.”

La forma che appartiene al nodo può “suggerire l’idea di trama (racconto) o di complicazione, per lo più con una sfumatura equivoca (tutti i nodi vengono al pettine); la funzione può determinarsi come vincolo (il nodo dell’amicizia, del matrimonio) o anche come impedimento o costrizione (un nodo di pianto, un nodo di tosse; avere come un nodo alla gola); al concetto di difficoltà può associarsi quello di centralità o essenzialità (il nodo di una questione).

O ancora il nodo può rappresentare “l’incrocio di due o più linee di comunicazione stradale o ferroviaria, per lo più di notevole importanza tecnica o funzionale.”

E ancora – in geologia: il nodo orografico è quello in cui si saldano più catene di monti; in botanica diviene la porzione del fusto delle piante sulla quale sono inserite una o più foglie; anche, difetto dei legnami, dovuto a rami morti e notevolmente induriti che attraversano il fusto in senso radiale rimanendo coperti dagli anelli legnosi successivi.

E – nell’industria tessile il nodo viene inteso come cascame costituito da grovigli di fibre o di ritagli di filato. In più il – Punto a nodo è un punto di ricamo eseguito avvolgendo il filo intorno all’ago e fissandolo poi al tessuto.

Lajos Saghy lo ha definito come: “«Nodo», profusione di sensi eterocliti, può significare l’attacco, l’anello, l’intreccio, la giuntura, la legatura, l’articolazione, il nodulo, la protuberanza di un albero, il rigonfiamento, il pene in vernacolo, la nodosità di un corpo, il punto in cui si inserisce una foglia sul ramo di un albero, la parte sporgente formata da una saldatura…”

Friedrich Nietzsche invece sosteneva che: “Contro i pochi che provano gioia a sciogliere il nodo delle cose e a disfarne lordito, molti (come ad esempio tutti gli artisti e le donne) lavorano a legarlo sempre di nuovo e a imbrogliarlo, in modo da trasformare il compreso nellincompreso, possibilmente nellincomprensibile. Qualunque cosa ne risulti – ciò che è stato intessuto e annodato, è destinato ad avere sempre un aspetto alquanto sudicio, perché è stato lavorato e tirato da troppe mani.”

E Michel Mendés France, matematico francese, affermava che: “Il nodo evoca lirregolarità, la singolarità (nodo dellabete), la complessità (sacco di nodi, nodo gordiano, nodo del problema) e, al limite, il caso.”

Il nodo riesce ad essere un simbolo catalizzatore della potenza artigianale sia umana che naturale, la perfetta collisione in grado di rappresentare l’idea di incontro e di cammino verso una meta, una tensione – reale o fittizia.

Senza perderci nelle trame di un sogno, in occasione della prima edizione della Via Della Lana e Della Seta – un percorso di trekking che collega le città di Bologna e Prato – i cinque artisti: Monica Camaggi e Laura Guerinoni, Alessandra Gellini, Roberto Dapoto, Oreste Baccolini hanno riflettuto e lavorato a quattro opere site specific per gli spazi della sala comunale di Castiglione Dei Pepoli, tappa intermedia dell’intera camminata.

Monica Camaggi e Laura Guerinoni hanno lavorato insieme all’opera: 5 Minutes – walk alone” –  “5 Stones – walk alone”  – la prima producendo una piccola videoproiezione realizzata con camera go-pro che per cinque minuti, appunto, ha ripreso la camminata di cinque figure di spalle lungo un sentiero dell’Appennino, soggetti in completa solitudine nell’atto di non voltarsi mai indietro verso l’osservatore, solo in certi momenti sembrano accennare ad una sosta o ad un gesto. Come di consueto nella poetica della Camaggi, ritorna l’idea di un rapporto intenso con la natura, solitario, originario, quasi osmotico, dove la presenza umana si ritrova in totale solitudine e assorbita in un dialogo con l’ambiente naturale. Il corpo si fa rilevatore sensibile di un’esplorazione continua nei luoghi ad esso legato. La necessità di ritornare all’origine è densa e viene tradotta sovente nel linguaggio fotografico, in questo caso video. Inoltre soprattutto nei lavori fotografici come “Supensa Levisque” del 2017 esposti ai Fienili del Campiaro (di Morandi) è percepibile il richiamo ad un pittoricismo descrittivo dell’evento – totalmente di influsso romantico – dove estasi e tormento si contrastano e si completano.

Laura Guerinoni invece ha lavorato ad un intreccio fitto di canapa grezza in cui i nodi diventano anfratti – grembi che costudiscono le pietre da macero – ed è proprio su di queste che avviene la proiezione di “5 Minutes – walk alone”.

Due opere che si incontrano nelle forme sinuose di un materiale povero, antico ed originario con un storia non troppo distante da noi e che ci appartiene.

Fino a 50-60 anni fa era ancora molto diffusa, nella pianura bolognese, la coltivazione della canapa, usata per fabbricare corde, tessuti, stuoie, ecc. Soprattutto nel mese di agosto il calore estivo era accompagnato da un odore acuto che fuoriusciva da vasche rettangolari, poco profonde, scavate nel terreno e piene d’acqua – i cosiddetti maceri – in cui venivano immerse le bacchette della canapa per dar modo a speciali microrganismi di scomporre, con un processo di fermentazione, le sostanze “collanti” che tengono unite le fibre di canapa al loro supporto legnoso.

Ecco che sulle sponde dei maceri giacevano piccoli cumuli di sassi di fiume, del peso di circa 5-6 kg. ciascuno, che servivano per appesantire le zattere di canapa in modo che affondassero nel macero.

I sassi erano stati prelevati dal letto dei fiumi ai piedi dell’Appennino e trasportati dai barrocciai con i loro carri trainati da un cavallo.

In gran parte della ricerca artistica della Guerinoni emerge la necessità di lavorare alla materia prima e all’arte della tessitura e dell’intreccio alla stregua di un corpo che vive e ramifica, che si modifica e si espande; come in “Shelter” 2015 o “Cellula” 2013.

Il richiamo ad organismi viventi è diretto e imprescindibile, le forme di esoscheletri, gusci o conchiglie sono perennemente citate nelle rotondità, nelle ciclicità e nelle lunghezze degli intrecci e delle tessiture.

Lo stesso atto paziente dell’intrecciare chiama in causa la riflessione sulla dimensione del tempo, che si allarga anch’esso nello spazio, dilatandosi. La memoria è un altro importante tassello di questo viaggio attraverso i fili – una doppia memoria: una storica e una che flette verso il futuro – ancora da comporre e tessere.

Restando in bilico sui confini di un ricordo – esili – ci spingiamo lungo questo nodo che ci porta “Per Aria” – l’installazione di spighe di Avena e Lapazio secchi con schegge di mine antiuomo e proiettili di Roberto Dapoto.

Nella poetica di Dapoto è sovente rintracciare l’idea di un ricordo sbavato, soffuso, fuori fuoco, abbozzato, accennato, come un sussurro, un soffio – la fragilità ma allo stesso tempo la potenza imbarazzante della memoria – vengono solitamente interpretate dall’artista tramite stampe VanDyke su tessuto misto. “Vento”, 2015 – “Dal Treno”, 2014 e “Anime” del 2013 ne sono uno splendido e delicato esempio.

In questa esposizione, l’artista si cimenta nella composizione fisica e scultorea di un ricordo – abbandonando così – l’impressione fotografica bidimensionale più pittorica e talvolta astratta.

Per Aria” nasce da un ricordo dell’artista, durante una visita al Parco Memoriale della Linea Gotica a Vernio che interseca i luoghi appenninici Della Via Della Lana e Della Seta “In particolare rimasi colpito dal silenzioso rumore del vento tra i fili di erba secca e l’eco della storia che aveva attraversato quei luoghi. Immaginai cosa poteva significare essere al centro di quegli eventi, e in particolare ricordo che cercai di visualizzare l’esplosione di una granata, la terra e l’erba secca sollevarsi in aria, le pesanti schegge di metallo ricadere verso il terreno”.

È doveroso ricordare di come l’Appennino sia stato bersaglio di guerre e stravolgimenti, e i libri di storia sono lì a ricordarlo a noi, eredi dei testimoni.

Per Aria” si sviluppa in altezza, con estrema eleganza e una leggerezza “Calviniana” – critica e introspettiva. L’avena e il lapazio si intrecciano in una danza silenziosa e a compendio di un fardello storico troppo pesante da portare, fili di seta rossa piovono – connettono, legano e cingono proiettili e schegge di mine antiuomo.

Il colore rosso che richiama il sangue e la ferita è qui metaforicamente ripreso come elemento di unione e comunione – in tensione – il filo resiste e si dilunga tra le forme precarie e caduche delle due piante secche.

La radici della vita e della morte si annodano qui, sospese quasi a chiedere un’interruzione nel dolore, con la speranza che la forza della memoria faccia rinascere vivido il ricordo di ciò che è stato, della storia di un territorio importante e imprescindibile per la nazione italiana. Perché la Resistenza è viva sempre.

Nel 1897 Paul Guaguin dipinse un’opera dal titolo emblematico ma allo stesso modo esplicativo: “Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?” – durante un soggiorno a Thaiti in un momento di vita molto difficile – Guaguin infatti usciva da un tentativo non riuscito di suicidio. Il pittore si appellò senza tregua ad uno dei nodi cruciali per comprendere l’esistenza umana: il senso della vita o per meglio dire gli innumerevoli sensi che può assumere.

Alessandra Gellini, lungo questo nodo, propone una lettura sotto forma di scultura – installazione: “Noi che sono io” è un grande groviglio dicotomico strutturato da un forte esoscheletro di metallo sferico e completato di soffici diramazioni di tessuto, che come nervature si espandono nello spazio circostante. La stessa artista ha affermato che: “La infinita trama di strade, tra costrizione-libertà-casualità-destini, tende verso quell’Altrove in cui nomos e phisis coincidono e in cui può emergere la natura dialogante. L’enigmatico noi che io sono di Platone.

Inoltre la forma sferica e la presenza di fonti luminose ci riportano ad un tratto di storia dell’arte italiana molto importante come quella dell’arte povera – e nella fattispecie alle opere di Mario Merz, all’utilizzo di forme archetipiche e neon – nella commistione di tradizione – storia e tecnologia – basti pensare ai famosi Igloo realizzati con i materiali più disparati.

All’interno di questo cuore pulsante di trame sorgono degli schizzi preparatori dell’opera e i disegni degli abiti dell’armadio dell’artista insieme a quelli da mettere in valigia all’alba di ogni nuovo viaggio; un’abitudine che l’artista ha per i suoi spostamenti, per catalogare e per fare ordine. Attraverso il disegno accennato sotto forma di appunto si ricrea un alfabeto visivo semplice ma essenziale.

Non a caso la forma del disegno è stata approfondita dall’artista in uno splendido saggio del 2015 “Segno e di-segno. Genesi dell’arte e del sé” – dove il concetto di disegno – che trova le sue radici nel ‘500 – incarna l’idea di discorso mentale “espressione e manifestazione non tanto dell’abilità manuale quanto delle capacità intellettuali e fantastiche dell’artista.”

Se non sappiamo chi siamo e nemmeno da dove veniamo, possiamo comunque provare a tentare ipotesi aggrovigliate, informi, incerte – come bozzetti, semi nascoste – tentando di vestirci o spogliarci al meglio per le varie tappe di questo cammino.

Fantasticando, tessendo e disegnando – creando connessioni e appunti.

In questo grande nodo – in questo grande crogiuolo.

Come è vitale nella sua poetica Alessandra Gellini riesce a coniugare l’incontro di differenti materiali soppesando leggerezza e pesantezza armonicamente in un fervido dialogo su temi importanti quali la stessa natura dell’esistenza e dell’arte.

Lungo questo nodo, la storia.

Alla fine del mese di settembre del 1944, Marzabotto, Grizzana Morandi e Vado di Monzuno subirono una delle più efferate rappresaglie ai danni della popolazione civile da reparti di SS e Repubblichini i quali, al comando del maggiore Walter Reder, misero a ferro e fuoco questa zona dell’Appennino uccidendo 1830 civili per colpire la Brigata partigiana Stella Rossa.

La casa dei familiari dell’artista Oreste Baccolini “Il Monte” a Monte di Salvaro venne data alle fiamme, gli animali furono sequestrati e alcuni parenti, tra cui due sorelle del nonno e una cugina, vennero allontanati e fatti prigionieri. Il nonno, nascosto all’interno di un castagno cavo, sentì le loro voci mentre si allontanavano. Le sorelle Anita e Flavia e la cugina Sestilia vennero successivamente ritrovate morte, ma non sepolte, sei mesi dopo la fine della guerra. Furono riconosciute dai capelli e dai vestiti.

L’artista ha ritrovato e raccolto tra le macerie della casa un piatto rotto e un frammento di trave annerita dal fuoco. Ed è da qui, che come un’antica fenice, traendo forza dalla storia è nata l’installazione “Less is more”.

Secondo l’affermazione dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe il “di più” si ottiene costruendo un edificio ispirato al concetto dell’essenzialità, in cui il vuoto riempie di significato i pieni.

Oreste Baccolini ha quindi lavorato a ripulire la memoria traducendola sotto forma di astrazioni fotografiche e video. Anche qui siamo dinanzi a piccoli indizi, frame, sospesi e isolati dal tempo. L’artista ha affermato: “Non possiamo ricordare tutto, ma possiamo riannodarci a ciò che rimane”.

In “Less is more” ogni cosa è illuminata.

Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato.. dall’interno guarda l’esterno, come dici tu alla rovescia.” Dal film Ogni cosa è illuminata, del 2005 con la regia di Liev Schreiber e tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Jonathan Safran Foer, pubblicato nel 2002.

Quattro fotografie stampate in carta cotone si alternano su pedane in legno bianche – come estratte da un libro ancora da ricostruire. Ritorna la forma sferica – il cerchio – così prezioso dai tempi di Giotto – simbolo immortale di una ciclicità espansa, di un’armonia trascendentale.

L’artista ha ripreso dei dettagli della trave annerita dal fuoco e dal piatto rotto. Frammenti che divengono nodi di una storia che l’artista ci sussurra e reinterpreta. Nel video un’ombra, quella di Baccolini, fantasmagoricamente in bianco e nero – si astrae graficamente – arrivando all’essenza – in un dialogo – danza, silenzioso, solitario con quell’amabile resto.

Anche con questa installazione Baccolini dimostra il suo approccio trasversale e plurimo sia ai temi dell’esistenza e della memoria che ai differenti medium dell’arte stessa.

Come in “Le schegge di nuvole” opera esposta ai Fienili Del Campiaro (di Morandi) l’azione commemorativa poetica dell’artista continua su un’onda di indagine storica comune – una storia che ha visto far sanguinare i nostri crinali – i nostri Appennini durante la Seconda Guerra Mondiale – le schegge di bombe ritrovate e ridipinte d’argento – agiscono nella e sulla nostra coscienza come i resti della trave annerita ri-fotografata – rimessa in discussione – “pasolinianamente” interrogandoci con ferocia e poesia.

Along this node” vuole ridisegnare i confini sbiaditi di un nodo comune, tracciare con audacia e umiltà i tratti di una storia collettiva che appartiene al nostro sangue – al nostro territorio – al nostro continuo cammino verso l’intreccio dell’esistenza – tessuta di tre tempi infiniti e incomprensibili annodati tra loro – il passato, il presente e il futuro.

Federica Fiumelli